Lo speciale di Andrea Boitani per Linkiesta sui problemi del trasporto pubblico locale

I 7 vizi capitali del trasporto pubblico locale per Linkiesta

I 7 vizi capitali del trasporto pubblico locale per Linkiesta

Soddisfare la mobilità, non il trasporto: sprechi, malfunzionamenti e assenza di concorrenza

I lavoratori del trasporto pubblico locale di Genova, dopo quattro giorni di sciopero contro la possibilità di un piano di privatizzazioni del trasporto pubblico locale, sembrano aver raggiunto un accordo con il Comune, che ha ribadito la necessità che la società abbia i conti in ordine.   Pochi giorni fa si era registrato un caso di pesante malagestione di Atac, l’azienda del trasporto pubblico di Roma, con addirittura una stamperia di biglietti contraffatti all’interno dell’azienda. Su un totale di 1.140 aziende, pubbliche e private, «il 43-44% è tecnicamente fallito» dice il sottosegretario ai Trasporti Erasmo De Angelis.   Qui di seguito pubblichiamo uno stralcio della relazione che il professor Andrea Boitani ha presentato a fine ottobre a Venezia, aprendo la quarta sessione del convegno SiPoTra, dedicata alla riorganizzazione del trasporto pubblico locale. Lo studioso di trasporti della Cattolica li ha chiamati i 7 peccati capitali del settore e cioè l’insufficienza infrastrutturale, la ridotta quota di mercato del Tpl, una forte presenza di capacità inutilizzata, costi alti collegati a una produttività bassa e ricavi bassi a fronte di un’evasione alta, le risorse date senza criterio, la scarsa integrazione tariffaria e, infine, assenza di ammortizzatori sociali.   Nel 2011 un referendum originariamente voluto per il settore idrico, aveva cancellato le speranze di ri-avviare finalmente il processo di riforma del Tpl che, dal 1997, è stato un po’ come la tela di Penelope. Poi il Governo Berlusconi al suo crepuscolo (col DL 138 del 13 agosto 2011) aveva ripristinato per tutti i settori – tranne quello idrico – la normativa dell’abrogato 23 bis. Normale che la Corte Costituzionale bocciasse questa evidente violazione dei risultati del referendum. Cosa residua dallo tsunami provocato dalla Corte Costituzionale? Riassumo i problemi sul tappeto in 7 peccati capitali:  

  • 1) Insufficienze infrastrutturali
     
  • 2) Ridotta quota di mercato del trasporto collettivo nelle città e nelle aree metropolitane rispetto alle best practices europee
     
  • 3) Presenza di capacità inutilizzata, dovuta soprattutto a inefficienti sovrapposizione di linee e contemporaneo sovraffollamento di alcuni servizi negli orari di punta
     
  • 4) Costi operativi per bus-km tra i più alti d’Europa; ricavi da traffico, al contrario, tra i più bassi d’Europa; di conseguenza, contributi pubblici tra i più alti d’Europa
     
  • 5) Le risorse pubbliche per il settore non sono né abbondanti né scarse, a priori, sono semplicemente date con modalità tutt’altro che incentivanti e con persistente ritardo
     
  • 6) L’integrazione tariffaria è diffusa a macchia di leopardo
     
  • 7) Il settore non è coperto da un sistema di ammortizzatori sociali che difenda i lavoratori coinvolti in ristrutturazioni industriali o in passaggi di gestione da un operatore all’altro a seguito di gare

  1) Insufficienze infrastrutturali ovvero sotto-dotazione di linee metropolitane e nelle principali città e di reti di metropolitane regionali nelle regioni più densamente popolate (Tabella 1). Negli ultimi venti anni solo Napoli ha fatto registrare un netto aumento nella dotazione di metropolitane. I tempi di costruzione sono, in Italia, lunghissimi. Se a Madrid una linea di 41 km è stata costruita in 34 mesi (meno di un mese a km), a Roma e a Milano si è arrivati a più di un anno a km. Tutto ciò significa carenze nel cosiddetto trasporto rapido di massa, a più di vent’anni dalla L. 211/92, quello che più soddisfa le esigenze dei cittadini-lavoratori e dei pendolari-lavoratori.     2) Ridotta quota di mercato del trasporto collettivo nelle città e nelle aree metropolitane rispetto alle best practices europee (Tabella 2). Solo Milano e (a una certa distanza) Napoli hanno quote del Tpl che si avvicinano a quelle più basse in Europa. Roma e Torino stanno ben al di sotto. In molte città italiane il possesso di auto è superiore a quello registrato nelle città europee di dimensioni comparabili. E ciò significa più auto in circolazione e più auto in sosta, con conseguente aumento del grado di congestione, con effetti negativi tanto sui ricavi quanto sui costi del trasporto pubblico di superficie. Ma la qualità di alcuni servizi è scarsa (bassa velocità commerciale e ritardi – a causa della cogestione ma anche per problemi di gestione); ancora scarsa utilizzazione delle tecnologie dell’informazione; vetture (o carrozze di treni e metropolitane) vecchie e sporche, ecc.     3) Presenza di capacità inutilizzata, dovuta soprattutto a inefficienti sovrapposizione di linee e contemporaneo sovraffollamento di alcuni servizi negli orari di punta. Per decenni si è proceduto secondo una logica additiva di servizi programmati, per dare segnali di attenzione politica, senza poi verificare gli effetti in termini di coefficienti di carico sulle singole linee o relazioni. La sedimentazione di “reti di servizi storici” è un problema non meno grave dell’allocazione dei sussidi sulla base della spesa storica.     4) Costi operativi per bus-km tra i più alti d’Europa; ricavi da traffico, al contrario, tra i più bassi d’Europa; di conseguenza, contributi pubblici tra i più alti d’Europa (Figura 1). I costi non sono più alti per il livello dei salari, ma per il basso livello della produttività (Figura 2), anche se sembra via siano sostanziose differenze tra le retribuzioni dei dipendenti delle grandi aziende pubbliche e quelle dei dipendenti delle piccole aziende private. Al di là delle patologie, sembra sia ritenuto fisiologico un mis-management che in altri settori non verrebbe tollerato, così come sembra sia tollerato un assetto contrattuale e relazioni industriali che favoriscono la bassa produttività.     5) Le risorse pubbliche per il settore non sono né abbondanti né scarse, a priori, sono semplicemente date con modalità tutt’altro che incentivanti e con persistente ritardo, contribuendo alla formazione di un permanente indebitamento delle aziende, soprattutto da Roma verso Sud. In alcune regioni e in alcuni comuni, però, la situazione è patologica, come la recente, drammatica, vicenda di Napoli testimonia fin troppo chiaramente. E temo non si sia trattato solo di mancanza dei soldi per la benzina. Ancora, le risorse pubbliche vengono date senza molta attenzione per le implicazioni distributive. Non va dimenticato che, in generale, i maggiori beneficiari dei sussidi pubblici non sono necessariamente i cittadini più poveri ma quelli appartenenti ai ceti medi urbani. Chi è obbligato a usare l’automobile perché si muove in aree peri-urbane (dove i mezzi pubblici non arrivano e non possono arrivare se non a costi astronomici) non è necessariamente più ricco, ma paga tasse salate sui carburanti che contribuiscono a sussidiare il Tpl usato dai “cittadini”     6) L’integrazione tariffaria è diffusa a macchia di leopardo. Al primato della Campania – dove “Unico-Campania” è attivo dal 2003 – fa riscontro il ritardo della Lombardia, cioè la regione più popolosa e con la più intensa mobilità del paese. La politica tariffaria del settore non segue alcuna logica regolatoria. In effetti, si ha la sensazione che quella del Tpl sia una delle poche leve per la ricerca del consenso rimaste in mano ai politici locali (soprattutto comunali). I quali, quindi, usano tariffe, nomine e governance delle aziende pubbliche, rapporti con le (poche) aziende private come i principali strumenti politici a disposizione. E ciò spiega anche perché sia così difficile spostare la competenza sul settore al livello adeguato per la programmazione e il controllo. In questo settore, contro le intuizioni della teoria economica, c’è più cattura del regolato che del regolatore, anche perché il regolatore è, a un tempo, il proprietario, il committente e il responsabile politico.      7) Il settore non è coperto da un sistema di ammortizzatori sociali che difenda i lavoratori coinvolti in ristrutturazioni industriali o in passaggi di gestione da un operatore all’altro a seguito di gare. L’assenza di ammortizzatori sociali ha spinto i sindacati a chiedere e i politici locali ad accettare l’inserimento di rigide clausole sociali nei bandi di gara e nei contratti di servizio, che è molto probabile abbiano avuto effetti dissuasivi della partecipazione alle gare da parte di imprese diverse dagli incumbents. Il recente accordo tra organizzazioni sindacali e organizzazioni datoriali relativamente all’accesso al fondo di solidarietà per il personale è un primo passo, ma c’è da temere si tratti di un passo insufficiente, data la potenziale entità della mobilità necessaria.

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