Non è un gioco salire su una carrozzina e mettersi nei panni di un disabile. Non è facile. E nemmeno divertente. È necessario, però, per potersi fare una lontana, lontanissima, idea di che cosa siano costrette a sopportare, ogni giorno, le persone che con gli handicap sono abituati a convivere. E a combattere. «Quelli che ancora non si sono arresi o rassegnati», sottolinea Vincenzo Tota
Reggio Emilia – Sessantaquattro anni portati con un sorriso smagliante, lui. Nonostante una disabilità che gli impedisce di muoversi senza stampelle o sedia a rotelle. È con questo spirito — e con questo accompagnatore d’eccezione (è l’ex presidente del comitato paralimpico reggiano) — che abbiamo deciso di intraprendere il nostro viaggio all’interno della città degli ostacoli. Quella Reggio che nel 2010 fu uno dei tre capoluoghi italiani selezionati a concorrere all’Access City Award, premio europeo che riconosce la miglior città all’avanguardia sulle barriere architettoniche. Il riconoscimento, però, non è mai arrivato. Capiremo il perché. Il viaggio di Benedetta Salsi con Vincenzo Tota, su una carrozzina, comincia dall’idea di mobilità. E di autonomia. Così partiamo dalla caserma Zucchi, appena rinnovata (e rattoppata, dopo i primi errori di progettazione: gli autobus non passavano). Parcheggiamo la nostra auto fra le righe gialle e raggiungiamo la pensilina, nel bel mezzo di piazzale Lancieri d’Aosta. «Qui ci sono gli scivoli per chi non cammina, ma non c’è la segnaletica orizzontale per i non vedenti, si interrompe di fianco alla Cavallerizza. Com’è possibile per un cieco prendere un autobus?», incalza Tota. Non è tutto. Proviamo noi, con le nostre due carrozzelle, a salire su uno dei tanti mezzi di Seta che passano di continuo. Il primo si ferma, chiediamo all’autista di abbassare la rampa centrale: «Mi dispiace, è rotta la maniglia. Non riesco. Aspetti il prossimo». Attendiamo. Il mezzo successivo si ferma. Questa volta la pedana c’è. E funziona. Ma da soli, una volta abbassata,non è possibile usufruirne. Nemmeno avendo molta forza nelle braccia: la pendenza è troppa. A quel punto il conducente è costretto a fermarsi, tirare il freno a mano, scendere dal veicolo, abbassare la rampa e spingere la sedia a rotelle sul bus. Con tutto ciò che questo comporta in termini di responsabilità e ritardi. «Il nostro regolamento non è nemmeno molto chiaro su questo punto — sbotta uno degli autisti —. E se succede qualcosa durante la manovra di chi è la responsabilità?» Tota si toglie gli occhiali da sole. Fa un sospiro. E scuote la testa. «È per questo che molti di noi rinunciano anche a prendere i mezzi. È tutto complicato, rotto, malfunzionante, impreciso». Nel frattempo, notiamo la mancanza di segnalazioni sonore per i non vedenti: esistono solo su alcune linee, in altre non sono mai entrate in funzione. E non sono mai state previste alle fermate. Così come mancano quasi del tutto i cartelli per i non udenti. «Quando arriviamo e troviamo un disabile alla fermata, cerchiamo di avvicinarci il più possibile al marciapiede — spiega Michela Bognar, sindacalista di Uiltrasporti —. Abbassiamo il mezzo, scendiamo, lasciandolo acceso e con il freno a mano tirato. Poi abbassiamo manualmente la pedanina. Spesso non riusciamo a rimetterla a posto perché è sempre piena di sporcizia. E scatta l’allarme, che non ci permette di ripartire. Altre volte (e purtroppo accade spesso) il posto destinato ai disabili viene occupato da persone con il passeggino aperto, nonostante sia vietato. Per quanto riguarda i doveri degli autisti, in effetti, il nostro regolamento non è chiaro: tutto viene lasciato al buonsenso, anche perché spesso l’eventuale accompagnatore della persona portatrice di handicap non sa come funziona». Le pedane, comunque, esistono solo su poco più della metà del parco mezzi urbano di Seta. Diverse non funzionano o hanno la maniglia rotta. Proseguiamo.