Los Angeles. La app californiana che vuole rivoluzionare il car sharing e il servizio taxi sta sollevando molte polemiche negli Usa. E gli autisti ora cercano di ribellarsi
Kazi guida una Toyota Prius per Uber a Los Angeles. È un lavoro che odia. Riesce appena ad arrivare al salario minimo, e dopo i lunghi turni la sua schiena fa male. Però ogni volta che un passeggero gli chiede com’è lavorare per Uber, dice una bugia: «È come avere una mia attività, lo adoro». Kazi è costretto a mentire perché il suo lavoro dipende da questo. Dopo la corsa, infatti, Uber chiede ai passeggeri di valutare l’autista su una scala da una a cinque stelle. Gli autisti con una media al di sotto di 4,7 stelle possono essere «disattivati», che in gergo tecnico significa «licenziato». Anche Gabriele Lopez, un altro autista di L.A. si trova a mentire: «Ce ne stiamo lì seduti a sorridere, a dire a tutti che è un lavoro magnifico perché è quello che vogliono sentirsi dire». Lopez guida per UberX, il servizio low cost con auto di fascia bassa aperto dalla società l’estate scorsa. In realtà, se si chiede a un autista di Uber fuori orario cosa pensa della società, spesso la verità viene fuori. «Uber è come un magnaccia – racconta Arman, un autista di Los Angeles che ha chiesto di non riportare il cognome per il timore di atti di ritorsione — si prende il 20% dei miei guadagni e mi tratta come una merda. Tagliano i prezzi come e quando vogliono. E mi possono “disattivare” in un secondo. Quando mi sono lamentato mi hanno detto di andare a farmi fottere». Calano i prezzi, crescono le proteste A Los Angeles, San Francisco, Seattle e New York, negli ultimi mesi la tensione tra gli autisti e il management ha traboccato. E anche se il modello di business di Uber scoraggia le azioni collettive (tecnicamente tutti i lavoratori sono in concorrenza tra loro) alcuni autisti stanno provando a organizzarsi. I driver di Uber a Los Angeles, il più grande mercato di car sharing degli Stati uniti, hanno convocato durante l’estate decine di proteste per opporsi al calo delle tariffe. Alla fine del mese scorso, i conducenti che lavorano con il sindacato dei Teamster Local 986 hanno lanciato Cada (California App-based Drivers Association), una sorta di sindacato dei lavoratori dei servizi di mobilità basati su app. Anche a Seattle gli autisti di Uber hanno iniziato a protestare per i bassi salari e a riunirsi, costituendo la Seattle Ride-Share Drivers Association. All’inizio di settembre, a New York, gli autisti del servizio di lusso UberBlack hanno minacciato uno sciopero, riuscendo con successo a rovesciare la decisione unilaterale con cui l’azienda li voleva costringere a prendere anche le meno lucrative corse UberX. Il 15 settembre hanno protestato di nuovo. «Vogliamo che la società capisca che non siamo formiche», mi racconta Joseph DeWolf, un membro del comitato direttivo del Cada nella sala del sindacato dei Teamster a El Monte, California. «Quello che vogliamo è un salario che ci consenta di vivere, un canale aperto di comunicazione con la società e il rispetto di base». DeWolf spiega che Cada sta raccogliendo le iscrizioni e le quote sociali, e prevede di scioperare a Los Angeles se Uber si rifiuta di venire al tavolo di confronto. «Vogliamo che Uber capisca che non siamo formiche» Joseph DeWolf, California App-based Drivers Association Non sarà facile. Gli autisti stanno andando contro un Golia ricchissimo, che vale 18 miliardi di dollari. La società ha appena assunto David Plouffe — il manager delle campagne presidenziali di Barack Obama -, è attiva in 130 città e se si crede ai piani dei dirigenti il fatturato raddoppia ogni sei mesi. I ricavi di Uber dipendono da una rete di migliaia di automobilisti che tecnicamente non sono dipendenti della società ma piuttosto sono appaltatori autonomi — l’azienda li chiama «driver-partner» (autisti-soci, ndt) — che ricevono una percentuale delle sue tariffe. Fin dall’inizio, Uber ha preso all’amo gli autisti con un prezzo esca. Prendiamo il lancio di Uber a Los Angeles. A maggio 2013 l’azienda addebitava ai clienti un prezzo di 2,75$ per miglio (più 60 cent al minuto inferiore alle 11 miglia all’ora). Gli autisti avrebbero ricevuto l’80% della tariffa. Lavorando a tempo pieno, avrebbero potuto arrivare a un salario decente, tra i 15 e i 20 dollari l’ora. E così si precipitarono a firmare a centinaia, comprando auto e accendendo leasing solo per lavorare per Uber. Si trattava soprattutto di immigrati e persone a basso reddito, alla disperata ricerca di un lavoro ben pagato in questa terribile crisi economica. Tuttavia nel corso dell’ultimo anno, l’azienda ha dovuto affrontare la concorrenza agguerrita di un suo rivale, Lyft. E così per aumentare la domanda e spingere Lyft fuori dal mercato di L.A., Uber ha tagliato le tariffe di UberX a meno della metà: 1,10 $ per miglio più 21 cent al minuto. Gli autisti non hanno alcuna voce in capitolo nella determinazione dei prezzi ma devono provvedere da sé alla propria assicurazione e pagare il conto per la benzina e le riparazioni, un costo di 56 centesimi a chilometro secondo le stime dell’agenzia fiscale Irs. Con il nuovo modello di prezzi, i conducenti sono costretti a lavorare con margini sottili come un rasoio. Arman, per esempio, faceva circa 20 dollari l’ora appena un anno fa. E adesso? In certi giorni non arriva nemmeno ai livelli del salario minimo. Autisti soci? No, robot La sua esperienza è abbastanza comune tra i conducenti Uber di L.A. con cui ho parlato. Per molti, guidare per Uber è diventato un incubo. Arman lavora spesso fino a 17 ore al giorno per portare a casa quello che prima riusciva a fare in un normale turno di otto ore. E quando ha scritto una email a Uber lamentandosi della situazione la società lo ha cancellato. L’atteggiamento prevalente di Uber è che i conducenti sono liberi di smettere di lavorare se non sono soddisfatti, ma per persone come Arman, che hanno investito soldi veri nelle proprie auto, smettere non è un’opzione. «Questi lavoratori sono molto vulnerabili se non imparano ad agire insieme — dice Dan McKibbin, organizzatore dei Teamster della West Coast — in questo momento non hanno nessuno a proteggerli». Uber non ha risposto alle mie domande su Cada, i Teamster o su come tratta le lamentele degli autisti. Ma sembra fare spallucce di fronte alle richieste di chiunque. Stando ai racconti, quando il leader di Cada DeWolf ha incontrato il direttore di Uber a Los Angeles William Barnes all’inizio di questa estate, Barnes gli ha riso in faccia. Secondo DeWolf, quando ha detto a Barnes che gli autisti avevano in programma di organizzarsi con il sindacato dei Teamster, Barnes ha risposto: «Uber non negozierà mai con nessuna organizzazione che pretende di rappresentare gli autisti». L’azienda ha ripetutamente ignorato le mie richieste di commento su questo scambio. Ha invece emesso un comunicato accusando i Teamster di cercare di «riempirsi le casse» con i nuovi membri di Uber. «Non tratteremo mai col sindacato» L’azienda sostiene che non c’è nessun bisogno di un sindacato: chiede invece ai conducenti di avere fiducia che la società agisce nel loro interesse. Uber si è rifiutata di mostrarmi i dati completi che dettagliano il ricavo medio orario per i conducenti. Tuttavia continua ad asserire che gli autisti di UberX stanno facendo più soldi ora che prima dei tagli di prezzo di questa estate. «Le tariffe medie orarie di un driver partner di UberX a Los Angeles nelle ultime quattro settimane sono state del 21,4% superiori alla media settimanale di dicembre 2013», mi ha detto il portavoce Eva Behrend. «E gli autisti in media hanno visto le tariffe aumentare del 28% rispetto a dove erano a maggio di quest’anno». Io non sono riuscito a trovare un singolo conducente che dica di stare facendo più soldi oggi con i prezzi più bassi. Quello che è chiaro è che tutti gli autisti stanno facendo più corse per turno. E una volta tanto Uber lo ammette indirettamente. Dice Behrend: «Con i tagli di prezzo, i viaggi orari per driver-partner sono aumentati grazie alla maggiore domanda». Così, se gli autisti guadagnano meno per ogni corsa, Uber liconsiglia semplicemente di ripianare le perdite guidando per più miglia. Un suggerimento ragionevole, forse, per un analista che sgranocchia numeri nella Silicon Valley. Ma per i conducenti fare più miglia significa lavorare il più possibile per mantenere i piccolissimi margini di utile.
«In questi giorni, prendo qualunque coglione senza fermarmi mai. Io guido e basta, a volte fino a 15 ore al giorno», racconta Dan dopo una nottata passata a riportare a casa la gente ubriaca dai bar, «è molto umiliante», dice. Prezzi più bassi significa anche che pagano di più di tasca propria per la benzina. E le loro auto si deprezzano più velocemente per le miglia extra. Nel frattempo, Uber agisce come se stesse facendo un favore a offrire un lavoro. L’amministratore delegato Travis Kalanick, che ama fare grandi discorsi sull’innovazione, spesso sostiene che Uber aiuta le persone «a diventare imprenditori di se stessi». «Ma quali imprenditori – sbotta DeWolf – parliamo di persone che lavorano per turni lunghissimi e pagano il 20% dei guadagni a un gruppo di ingegneri della Silicon Valley. Non è come avere una piccola impresa. La verità — aggiunge il sindacalista — è che pensano che siamo un branco di perdenti che non riesce a trovare uno straccio di lavoro. Ecco perché ci trattano come robot, perché siamo sostituibili». Uber, ovviamente, contesta questa caratterizzazione. «Uber ha successo quando i nostri driver-partner hanno successo», risponde Behrend. Una forma di nudo sfruttamento Ma questo è solo un modo di dire: gli autisti non sono né partner né soci. Sono lavoratori sfruttati dalla loro impresa. Non hanno voce in capitolo nelle decisioni aziendali e possono essere licenziati in qualsiasi momento. E invece di pagare un salario ai propri dipendenti, Uber intasca una parte dei loro guadagni. Gli autisti si assumono tutti i rischi e tutti i costi — la macchina, la benzina, l’assicurazione — mentre dirigenti e investitori si arricchiscono. Uber naturalmente è solo l’esempio di una nuova ondata di aziende che compongono quella che viene chiamata l’«economia della condivisione» (sharing economy). La premessa è seducente nella sua semplicità: «Le persone hanno le competenze, i clienti vogliono i servizi». Silicon Valley fa la parte del sensale, il tramite che sforna applicazioni in cui i lavoratori fanno coppia con il lavoro.
Ora, chiunque può affittare un appartamento con Airbnb, diventare un tassista attraverso Uber, o fare le pulizia in casa utilizzando Homejoy. Ma sotto l’apparenza di innovazione e progresso, le aziende stanno spogliando le tutele dei lavoratori, spingendo verso il basso i salari e violando i regolamenti governativi.
Al suo cuore, l’economia della condivisione è uno schema per spostare i rischi dalle imprese ai lavoratori, per scoraggiare l’organizzazione del lavoro e per garantire che i capitalisti possano trarre enormi profitti con costi fissi sempre più bassi. Non c’è niente di innovativo o nuovo in questo modello di business. Uber è solo il capitalismo, nella sua forma più cruda. traduzione di @matteobartocci – copyright Jacobin Magazine