Roberto Ciccarelli per il manifesto racconta la lotta dell'autista tunisino Ramzi Reguii e del sindacato auto-organizzato «Drivers Network»

Uber, la scomoda verità per una start-up: il lavoro si paga

Uber, la scomoda verità per una start-up: il lavoro si paga

Una class action degli autisti di Uber (e Lyft) ha imposto il riconoscimento dello status da dipendenti e non di "contrattisti indipendenti". La multinazionale Usa dovrà riconoscere le tutele fondamentali a questi lavoratori

Quando si parla delle pro­te­ste Uber, si pensa a quelle dei tas­si­sti che in Ita­lia, in Bel­gio, o negli Stati Uniti difen­dono le loro licenze e scen­dono in piazza bloc­cando le città. Il ser­vi­zio taxi o noleg­gio di auto con con­du­cente mediante smart­phone ha pro­vo­cato la rea­zione fuori dalle righe dell’ex mini­stro dei tra­sporti Lupi secondo il quale «qual­siasi app che ero­ghi un ser­vi­zio pub­blico non auto­riz­zato com­pie un eser­ci­zio abu­sivo della pro­fes­sione».   La lotta Uber-tassisti sarebbe «un pro­blema di ordine pub­blico». Il 26 marzo la regione Ligu­ria ha pra­ti­ca­mente dichia­rato ille­gale il ser­vi­zio Uber sul suo ter­ri­to­rio, modi­fi­cando la legge regio­nale sul tra­sporto pub­blico mediante ser­vizi pub­blici non di linea.   La «sha­ring eco­nomy» pro­po­sta Uber ha un valore di 41 miliardi di dol­lari e non è quo­tata in borsa. Si pro­pone come una sfida del «libero mer­cato» con­tro le cor­po­ra­zioni pro­tette dallo Stato e fun­ziona attra­verso la «disin­ter­me­dia­zione» tra clienti, Stato e impresa. Il suo obiet­tivo è sosti­tuire il prin­ci­pio del ser­vi­zio pub­blico nella mobi­lità pena­liz­zato non solo dalle inef­fi­cienze, ma soprat­tutto dai tagli colos­sali al Wel­fare. Due recenti sen­tenze emesse dalla corte fede­rale di San Fran­ci­sco hanno aggiunto un ele­mento al qua­dro del «capi­ta­li­smo on demand».   Il tri­bu­nale ha infatti dato ragione ad una class action degli auti­sti free­lance gui­dati dal tuni­sino Ramzi Reguii, fon­da­tore del sin­da­cato auto-organizzato «Dri­vers Net­work». Gli auti­sti non sono «con­trat­ti­sti indi­pen­denti», ma «dipen­denti» e Uber e Lyft devono rim­bor­sar­gli le spese, incluso il costo della ben­zina e della manu­ten­zione dei vei­coli con i quali lavo­rano. Fino ad oggi, que­sti costi sono stati sca­ri­cati sulle loro spalle, insieme al paga­mento dei con­tri­buti per la sicu­rezza sociale, quello della disoccupazione.   La sen­tenza rivela la pre­senza di un con­flitto radi­cato negli Stati Uniti tra free­lance e aziende e potrebbe cam­biare i prin­cipi fon­da­tori della «sha­ring eco­nomy» che fun­ziona sulla pre­ca­riz­za­zione del lavoro auto­nomo e pre­ca­rio dei free­lance. Il loro gua­da­gno dipende dalla «valu­ta­zione» (o «gra­di­mento») dei clienti recu­pe­rati sulle app. Se la media è infe­riore a 4,7 punti su 5 Uber può «disat­ti­varli». La vit­to­ria del «Dri­vers Net­work» è un gra­nello di sab­bia in que­sto gigan­te­sco mec­ca­ni­smo estrat­tivo. Uber ha annun­ciato la crea­zione entro il 2020 di una «siner­gia» con Goo­gle. Spe­ri­men­terà una tec­no­lo­gia del «Self-driving», cioè un taxi senza autista.   Sem­bra fan­ta­scienza, ma que­sta solu­zione potrebbe per­met­tere di rispar­miare sul costo della forza-lavoro che rischia nel frat­tempo di salire. «Eli­mi­ne­remo l’altro tizio nella mac­china» ha detto Tra­vis Kala­nick, fon­da­tore di Uber, già nel mag­gio 2014. Il «tizio» è l’autista, s’intende. Que­sto è lo sce­na­rio che pre­para chi pensa di essere al di sopra delle leggi.   Secondo un’inchiesta della tv all-news fran­cese Bfm la società ame­ri­cana ha creato un dispo­si­tivo di «otti­miz­za­zione fiscale» che per­mette di inviare i cospi­cui gua­da­gni dalla sede fiscale in Olanda (a cui fanno rife­ri­mento le filiali euro­pee) nei «para­disi fiscali» delle Ber­mude e poi nel Dela­ware. Dispo­si­tivi fiscali simili ven­gono usati da mul­ti­na­zio­nali dello sha­ring come Goo­gle e Face­book che fat­tu­rano in Irlanda.   ***
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