Nel suo racconto Lavinia Ro sottolinea come il traffico a Roma porti ad amare i trasporto pubblico

“Il traffico di Roma è una pratica militare”

“Il traffico di Roma è una pratica militare”

Pubblichiamo il post di Lavinia Ro sul suo blog Rubber Duck, nel quale l'autrice, blogger e studentessa di Giurisprudenza romana

Guidare nel traffico di Roma è una pratica militare, tempra lo spirito, è una metafora di vita. Ravviva i riflessi e fa venire a galla tutte le contraddizioni del genere umano.   E’ una sorta di penitenza per tutte le volte in cui ci lamentiamo dei mezzi pubblici, tanto il signor ATAC lo sa che l’alternativa al ritardo dell’autobus è il ritardo per cercare parcheggio e gongola nel suo castello di BIT da 1,50 €.   Roma racchiude misteri che nessuna puntata di Casalegno potrà mai rivelare, piccole incongruenze che mandano in tilt una città intera: i marciapiedi sono stati creati proprio per far camminare le persone per strada oppure le persone non sanno che esistono i marciapiedi? Il semaforo diventa giallo quando mi avvicino io oppure sono io che li becco tutti tiepidi, pure i semafori? Perché se metà Roma è impercorribile per i lavori della metro C e l’altra metà è sempre sotto ZTL, nell’unica strada libera un genio ha parcheggiato un SUV in seconda fila?   Così, dopo una giornata tra le signore che passeggiano sulle strisce pedonali invece che nei parchi e i motorini troppo lontani dal rispettare il codice della strada ma troppo vicini al mio specchietto, rientro in camera cercando ancora il pedale della frizione con il piede sinistro e inciampando nei pensieri con il destro.   Mi infilo a letto e penso che, in fondo, poteva andar peggio: sarebbe potuto piovere il giorno dopo aver lavato la macchina o sarei potuta essere una di quelle ragazze che “no, io non guidoihihih” – e in quest’ultimo caso sarebbe stato molto peggio. Loro alla pratica militare hanno preferito il servizio civile, quello che non sporca i capelli di smog, ti fa sedere sempre dalla parte del passeggero e non costringe a portare un paio di scarpe basse di ricambio nel bagagliaio.   Guidare nel traffico di Roma tempra lo spirito, è il corrispettivo dell’allenamento zen per noi occidentali. Chiunque potrebbe innervosirsi dopo quarantacinque minuti di vana ricerca per un posto a pagamento – se pago vorrei averne cinque di posti e la libertà di scegliere quello a spina, grazie. Ma a noi che non sediamo dal lato del passeggero – noi che affrontiamo la giornata con Padre Pio sul cruscotto e la pazienza di un buddista in corpo – restano poche certezze maturate in anni di clacson selvaggio, compresa quella che, in fondo, “non ne vale la pena”.   In quei momenti in cui vorrei darla vinta al signor ATAC e pagargli una birra oltre al biglietto, i momenti in cui vorrei scendere consegnando le chiavi ai vigili (“mi arrendo, fate della mia auto ciò che volete”) o annullare l’appuntamento all’ultimo con una scusa banale ma più credibile del “non so dove lasciare la macchina”, mi ricordo delle cinque parole magiche, alzo il volume della mia canzone preferita e scivolo via.   Come quando cerco parcheggio a Trastevere e il tipo davanti inizia a rallentare, accelerale, inchiodare, indagare “Scusi va via?” – “No, sono appena arrivato”. Ha la mia stessa intenzione, vuole fermarsi ma non sa dove, costringe me a perdere tempo lì dietro sapendo già che quella che resterà per strada sarò io.   Poi dopo tanta pazienza mia, lui trova parcheggio, scende e se ne va. Riconosco la tarantella, è una vita che sto dietro agli indecisi. Alzo il volume, un sorriso, il sorpasso e scivolo via. Io non siedo dal lato del passeggero e so che “non ne vale la pena”.  

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