L’importanza delle “Zone 30” per una convivenza sicura tra auto, due ruote e pedoni nell'approfondimento di Luca Martinelli per Altreconomia

Pedalata non assistita

Pedalata non assistita

A settembre riparte alla Camera dei deputati la discussione in merito alla riforma del Codice della strada. Che interviene in modo importante anche sul tema della ciclabilità: l’ultima legge sulla materia, in Italia, risale al 1999 e gli investimenti latitano. Nel nostro Paese gli spostamenti in bici sono il 3%. L’Europa insegna come crescere, ad esempio con i "sensi unici eccetto bici" che il Parlamento pare intenzionato a non permettere in Italia

L’Italia che pedala continua a farlo, nonostante tutto: anche se nel 2012 (ultimi dati Istat) sono stati ben 289 i ciclisti morti per strada, quasi uno ogni dieci vittime del traffico, il numero di spostamenti realizzati utilizzando le due ruote -secondo l’ultimo rapporto sulla mobilità in Italia dell’Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti, www.isfort.it, presentato a fine maggio- è cresciuto tra il 2012 e il 2013.   Tuttavia, la “modalità ciclistica” corrisponde solo al 3% della domanda di mobilità degli italiani, e anche se le statistiche relative al mercato delle biciclette ci dicono che ormai le due ruote superano le nuove auto immatricolate -nel 2013 ne sono state vendute oltre un milione e mezzo, segnando un più 15% rispetto alle automobili- questi numeri non si traducono in un boom per strada.
Perché questo accada, occorre un contorno adeguato che manca, e che è allo stesso tempo “pratico” e “normativo”. Con parole diverse, i nostri interlocutori dicono tutti la stessa cosa: “Non servono percorsi ciclabili, ma strade ciclabili: ogni itinerario deve essere percorribile in sicurezza”, dice Matteo Dondé, architetto, esperto in pianificazione della mobilità ciclistica e moderazione del traffico, già consulente di numerose amministrazioni comunali; “serve privilegiare la sicurezza, non l’infrastruttura”, afferma  Beppe Piras, presidente  dell’associazione culturale torinese “Bike Pride” (www.bikepride.it); “in Belgio, quello che da noi è il Codice della strada in ambito urbano si chiama, dal 1975, de la rue, della via: ciò indica un’attenzione rivolta alla mobilità, a tutto tondo, e non alla circolazione dei mezzi motorizzati, con il resto lasciato ai margini” spiega Valerio Parigi, vice presidente della Federazione italiana degli amici della bicicletta (FIAB, http://fiab-onlus.it).

La FIAB è uno dei soggetti che oggi siede nei tavoli tecnici convocati dal ministero delle Infrastrutture e trasporti che discutono (finalmente) una riforma del nostro Codice della strada. La ricetta sarebbe semplice: basta sostituire una parole nella frase “ce lo chiede l’Europa”, per farla diventare “ce lo insegna l’Europa”; basterebbe, cioè, copiare.   In Belgio, racconta Parigi di FIAB, c’è l’inversione dell’onere della prova: “In caso di sinistro, è il conducente del mezzo più pesante, generalmente quello a motore, a dover sempre giutificare il proprio comportamento, a dover dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare l’incidente”. In Francia, invece, una norma ministeriale stabilisce che nelle “zone 30” (quelle, cioè, dov’è istituito un limite di velocità di 30 chilometri all’ora) i sensi unici non esistono per le bici, che possono procedere in sicurezza anche contromano: più le auto vanno piano, minore è la possibilità di scontri pericolosi. L’Italia, invece, è letteralmente ferma al secolo scorso, “quando la parola ciclabilità era un concetto per marziani”, scherza Valerio Parigi: oltre al Codice della strada, il riferimento normativo è un decreto ministeriale del 1999, il numero 577 -“Regolamento recante norme per la definizione delle caratteristiche tecniche delle piste ciclabili”-, anche se il problema vero -spiega Parigi- sono “i pareri ministeriali, quelli che i funzionari inviano ai Comuni che pongono quesiti relativi allo sviluppo della mobilità ciclabile”.

Un esempio lo racconta Matteo Dondé: “Di fronte alla richiesta di far circolare le biciclette sulle corsie preferenziali per gli autobus, il ministero ha sostenuto che il problema sarebbe lo spostamento d’aria”. Secondo gli stessi funzionari, però, i ciclisti sono liberi di pedalare sulla viabilità ordinaria in mezzo ad auto che sfrecciano superando il limite dei 50 chilometri orari, perché “il controllo elettronico della velocità in ambito urbano sarebbe pericoloso, perché gli automobilisti frenerebbero improvvisamente, tamponandosi” continua Dondé, che critica l’attitudine del ministero delle Infrastrutture, che è fondata sui punti di vista, e quasi mai accompagnata da numeri. In Olanda, dove il controllo elettronico di velocità in ambito urbano esiste (ed è monitorato) da dieci anni, è aumentato il numero degli incidenti ma se ne è ridotta la gravità.     
L’Italia, però, non sperimenta. E a parte casi esemplari la riflessione sulla mobilità ciclistica è ancora ferma “a una contrapposizione ideologica, secondo cui la ‘pista ciclabile’ è di sinistra” spiega Matteo Dondé. Le cronache danno ragione, con le affermazioni di Massimo Bitonci, della Lega Nord, che quattro giorni dopo essere diventato sindaco di Padova ha dettato la propria linea in materia di mobilità urbana: “Realizzeremo uno studio veloce per creare parcheggi in centro e in questa direzione bloccheremo i progetti di pista ciclabile in corso Milano, perché non possiamo togliere altro spazio a posti auto” (il corsivo è nostro). Oggi -con 15,09 metri equivalenti per 100 abitanti- Padova è al 13° posto nella classifica stilata da Legambiente, Rete mobilità nuova e bikeitalia.it per il dossier “A-bici”, che dà i numeri ponderando i dati relativi ai chilometri di piste in sede propria, in corsia riservata, su marciapiede, ma anche i chilometri di piste promiscue bici/pedoni e le zone con moderazione di velocità a 20 e 30 chilometri orari.

L’analisi nasce per rispondere a una domanda -“Come si costruisce una città a misura di bicicletta?”-, consapevoli di un’esigenza impellente, quella di andare “oltre le ciclabili”. Un’esigenza che Beppe Piras, di Bike Pride Torino, traduce così: “Più il ciclista e l’automobilista vengono tenuti separati, più aumenta il rischio di problemi nel momento in cui si incontrano”.  
La classifica “A-bici” è guidata da Reggio Emilia, che con 38,05 metri equivalenti ogni 100 abitanti è la città più bike friendly d’Italia. Matteo Dondé ha redatto -nel 2008- il Biciplan della città, che ha privilegiato la creazione di “zone 30”. Oggi -spiega- “parlano i dati, con un aumento dei 7% degli accessi in bici al centro storico e una riduzione del 9% degli incidenti”.
In Francia, intanto, l’amministrazione che vuol fare di Parigi “la città dei ciclisti”, ha promesso di trasformare in “zone 30” i tre quarti delle arterie urbane, e non di costruire mille chilometri di ciclabili. In Italia, invece, l’Istat continua a misurare la ciclabilità dei capoluoghi di provincia italiani un tanto al chilo, cioè in base ai chilometri di piste ciclabili ogni 100 chilometri quadrati di superficie urbana. Senza contare, perciò, la densità abitativa, né il profilo orografico del Comune.

La classifica, in questo caso, è guidata da Torino, anche se scendendo dall’empireo dei numeri agli assi stradali, uno scopre che “i 175 chilometri di ciclabili in realtà sono ‘pezzetti’, e che anche se il Biciplan approvato a fine 2013 ha come obiettivo una mobilità ciclabile al 15% nel 2020 (Bolzano e Ferrara già sfiorano il 30 per cento, ndr), oggi non sappiamo nemmeno quant’è, perché non esiste una misurazione efficace” spiega Piras dell’associazione Bike Pride.   A settembre 2014 i ciclisti torinesi torneranno a pedalare (a maggio 2013 erano in 30mila, per chiedere alla Città di Torino di “cambiare strada”), “per chiedere di stilare un cronoprogramma rispetto agli interventi previsti nel Biciplan, a cominciare dalla creazione delle ‘zone 30’, nei quartieri e nei controviali”. A differenza delle ciclabili, che costano -dai 50 euro al metro di una corsia, ai 125-150 di una pista separata-, questi interventi che mirano a modificare la relazione “culturale”  tra il cittadino e la strada hanno budget ridotto, il che è fondamentale di fronte alla crisi in cui versano le casse degli enti locali: “Torino ha approvato il bilancio ‘preventivo’ del 2013 a novembre 2013 -spiega Piras-; aspettiamo l’autunno per vedere la ‘copertura’ economica del Biciplan”. Dovrebbero esserci almeno 2 milioni di euro, ovvero “il 15% del 50% di quanto incassato dall’ente con le multe, che per legge dovrebbero essere destinate alla sicurezza stradale, ma che spesso finiscono col pagare anche i costi degli straordinari dei vigili urbani.
Dopo quindici anni, intanto, si discute la modifica del DM 577/99, e la “mobilità ciclistica” è al centro di un’intensa attività legislativa. Valerio Parigi,  vice presidente FIAB, elenca tutti i provvedimenti in discussione “a Roma”: intanto, c’è la modifica del Codice della strada, arrivata alle linee guida in commissione Trasporti alla Camera; esiste poi un progetto di legge “per lo sviluppo della mobilità in bicicletta”, il cui primo firmatario è il deputato PD Antonio Decaro, neo sindaco di Bari: il testo si occupa “di finanziamenti e incentivi” spiega Parigi; Diego De Lorenzis, del M5S, è invece il primo firmatario di un provvedimento che garantisce anche ai ciclisti la copertura assicurativa in caso di infortunio nel tragitto casa-lavoro, “perché adesso -racconta Parigi- questo avviene solo se il soggetto è in grado di provare che non poteva utilizzare messi alternativi, ad esempio quelli pubblici, e se il tragitto percorso è fatto su pista ciclabile, che in Italia è praticamente infattibile”.   Nella stessa direzione va un’altra proposta di legge, che vede come primo firmatario Diego Zardini (del PD) e che è stata sostenuta anche dai Comuni veronesi di Povegliano, Bovolone, Castel d’Azzano e San Giovanni Lupatoto. La legge andrebbe a cancellare una “discriminazione a danno di chi usa la bici anziché l’automobile” ha dichiarato Anna Maria Bigon, sindaco di Povegliano.
Anche i cittadini, nel frattempo, possono fare la propria parte, sperimentando. Quelli di Casalmaggiore, 15mila abitanti in provincia di Cremona, hanno sperimentato per un mese e mezzo -fino al 30 giugno 2014- la “zone 30” nella centrale via Baldesio –http://viabaldesio30.wordpress.com-, realizzando un restringimento della carreggiata e tre “chicane”.   “I nostri obiettivi sono moderare il traffico e la velocità, aumentando la socialità della via, che fa bene anche al commercio di vicinato: andando più piano, restiamo a starci tutti sulla strada” spiega Fabio Perini, dell’associazione Gasalasco Oglio Po. È un Gas, i cui membri sono convinti che il consumo critico si realizzi anche per strada, scegliendo di rafforzare l’utenza debole (i ciclisti e i pedoni) aumentando il livello di sicurezza.

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