Le società ex municipalizzate in Italia sono 985 contro le 4 in Francia e le 5 in Gran Bretagna. Tutte sono in rosso e spesso sono utilizzate dai politici per piazzare i loro protetti. I progetti per ridurle e riorganizzarle
A ben guardare l’assassino è il campanile, come in molte altre storie italiane. E’ il disperato bisogno di rimanere attaccati alla propria zolla che rassicura l’animo, ti fa sentire a casa e moltiplica i costi a dismisura. La storia del trasporto pubblico locale non è solo fatta di clientele (ma anche posti di lavoro), sprechi (ma anche servizi che nessun privato saprebbe fornire) e consigli di amministrazione. È soprattutto un pacchetto di ben 985 società frantumate come briciole sulla carta geografica che occupano 110 mila addetti e ogni giorno spostano più di 14 milioni di italiani.
«In Europa – osserva Roberto Barbieri, che ha guidato i trasporti di Torino dal 2010 al 2013 – le società di trasporto locale hanno fatturati da 5 miliardi di euro e 50 mila dipendenti. Ma sono 4 in Francia e 5 in Gran Bretagna». Concentrazione e risparmio dei costi. «La frantumazione – aggiunge Barbieri che oggi guida l’aeroporto di Caselle – è una malattia anche nel trasporto aereo: nel Nord ci sono addirittura diciotto scali». Alcuni, ovviamente, microscopici e dunque inutilmente costosi.
Lo spreco del trasporto pubblico locale non è uniforme nella Penisola: «Ci sono aziende virtuose un po’ dappertuttto», garantisce Piefrancesco Maran, responsabile dei trasporti a Milano nella giunta Pisapia. Maran invita «a non coinvolgere in un giudizio negativo tutte le realtà. Ci sono situazioni positive lungo tutta l’Italia, dalla Puglia alla Lombardia, dall’Emilia alla Toscana, alla Sardegna. Poi ci sono casi difficili e non solo nel Sud. Penso alla Liguria, ad esempio».
Nonostante le differenze, il quadro generale è quello di un sistema che fa molta fatica a funzionare. Innanzitutto perché anche nelle città il mezzo di trasporto privato continua ad essere di gran lunga il più utilizzato. Non per caso una delle aziende più solide è l’Atm di Milano, la città d’Italia che primeggia in numero di utilizzi annui pro capite. Al secondo posto in questa classifica sull’utilizzo dei mezzi pubblici c’è Venezia ma è noto che nella città della laguna l’unica alternativa al vaporetto sono le gambe o la costosa gondola privata. In media gli europei sono più virtuosi di noi: nella Penisola il 43 per cento degli abitanti non utilizza mai il mezzo pubblico metre a livello continentale la percentuale scende al 29.
«La riduzione dei trasferimenti dallo Stato ha finito per peggiorare la situazione», osserva Maran che in Anci rappresenta gli assessori ai trasporti dei Comuni italiani. Non sempre infatti riduzione del finanziamento pubblico diventa automaticamente riduzione dello spreco.
«Può accadere invece – aggiunge Maran – che il taglio dei trasferimenti diventi una delle cause di ulteriori inefficenze», come nel caso in cui si debba rinnovare il parco dei mezzi circolanti. Se tram e autobus sono scomodi o scarseggiano il numero dei passeggeri è destinato a scendere. Le statistiche confermano che,almeno fino ad oggi, l’uso dei mezzi pubblici è anticiclico. Quando l’economia tira il numero dei passeggeri scende e l’automobile torna a prendere il sopravvento. Lo si legge chiaramente nei dati del rapporto sulla mobilità in Italia presentati lo scorso anno. Dal 2009, data d’inizio della crisi, al 2012, la percentuale di spostamenti su tram, autobus e metropolitane rispetto al totale degli spostamenti in città è passata dall’11 al 15 per cento. Nel 2013, appena ha cominciato a intravedersi la famosa luce in fondo al tunnel, la percentuale è crollata immediatamente al 12. Insomma, il mezzo pubblico è il male minore, non la scelta più conveniente. Nonostante l’intasamento delle auto e le chiusure dei centri storici.
Il nanismo delle aziende rende naturalmente più difficile investire. E incrementa il circolo vizioso che le lascia non di rado sull’orlo del fallimento. A peggiorare la situazione sono intervenuti i tagli nei trasferimenti da Roma. Dal 2011 al 2015 la scure si è portata via il 15 per cento dei finanziamenti statali, 800 milioni in meno. Ci sono aziende, come quelle di Venezia e Milano, che riescono a coprire con i biglietti più del 50 per cento delle entrate. Ma il panorama nazionale è molto meno incoraggiante: in media il 53 per cento delle entrate delle aziende di trasporto pubblico locale è legato ancora ai trasferimenti, dalle Regioni o dal governo. «In autofinanziamento abbiamo acquistato materiale rotabile per 220 milioni», dice orgoglioso Maran, ammettendo che «forse in questa vicenda una spinta ce l’ha data l’evento di Expo».
In Europa le grandi dimensioni servono a investire e anche ad abbattere l’età media del parco circolante. Che in Italia è di 13 anni contro i 7 anni della media europea. Per favorire il rinnovo dei mezzi una delle soluzioni potrebbe essere quella di indire una unica gara nazionale. Partendo naturalmente dagli autobus che rappresentano ancora il 93 per cento dei mezzi pubblici. «E’ una strada che il governo sta studiando», conferma Maran.
E sarebbe una soluzione per iniziare quel piano di aggregazione soft che molti immaginano come rimedio alla malattia del nanismo economico. Una strada non semplice perché si tratta di superare gelosie, localismi e interessi radicati.
«Ma è proprio in questo modo – sostiene Barbieri – che si può andare verso la concentrazione». Gare uniche o comunque per grandi aree geografiche potrebbero riguardare, oltre al parco dei mezzi circolanti, anche la manutenzione creando società che se ne occupino a livello sovraregionale. Solo in un secondo tempo, consolidata la rete di attività che stanno alle spalle del servizio al cliente, si potrà immaginare un processo di concentrazione simile a quelli francese e inglese. Se politiche di fornitura comuni fossero state intraprese negli anni scorsi, forse si sarebbe potuta evitare la chiusura di uno stabilimento come l’Irisbus di Avellino che cessò la produzione per mancanza di commesse pubbliche di autobus.
Quando avranno le spalle più larghe, le società di trasporto pubblico potranno anche immaginare di diventare appetibiliti per soci come i fondi di investimento che al momento preferiscono tenersi alla larga da un settore in cui il peso delle convenienze dei partiti, prima ancora che delle scelte della politica, continua ad essere determinante. Ma anche nello scenario più caro al pensiero liberale, una quota di intervento pubblico nel settore è inevitabile. Soprattutto perché senza il braccio pubblico appare impossibile oggi immaginare di realizzare i grandi investimenti in infrastrutture che sono la base per un servizio efficente.
L’Italia soffre tuttora di una grave carenza di metropolitane, il servizio che più di altri serve a togliere gli italiani dalle auto private. Nel periodo 2001-2012, quello in cui gradualmente è entrata in funzione la prima linea di metropolitana a Torino, il numero medio dei passeggeri sulla rete pubblica della città è aumentato del 15 per cento. Ma se si esclude Milano, che di linee ne ha cinque, le altre città stentano ad avere una rete sotterranea adeguata.
L’ipotesi di grandi aggregazioni (Barbieri propone, ad esempio, di creare un’unica società per le città del vecchio triangolo industriale, Torino, Milano e Genova) deve fare i conti con i grandi cambiamenti che la mobilità subirà nei prossimi anni. I servizi di sharing (dall’auto condivisa in parcheggio fisso a quella che si trova con lo smartphone e il pc) sembrano destinati a diventare concorrenziali sia all’auto privata sia all’autobus pubblico, rappresentando una sorta di terza via alternativa ad ambedue. Le grandi infrastrutture faranno il resto. Se con l’alta velocità Milano e Torino si raggiungono in poco più di mezz’ora, per quale motivo non possono avere la stessa azienda che gestisce il trasporto pubblico?