Chiusa la vendita di Poste, è l'ora di Ferrovie. Il dossier è sul tavolo del governo da almeno due anni, e già a febbraio il Tesoro aveva scelto un advisor, Merrill Lynch. Ieri però il Consiglio dei ministri ha suonato il gong con l'approvazione delle linee guida per la privatizzazione.
Nel corso del 2016 andrà sul mercato il 40 per cento dell'azienda valutata almeno 45 miliardi di euro, compresa però la rete, al momento esclusa dalla privatizzazione. Il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio promette un azionariato «diffuso e aperto» con incentivi per i dipendenti che vorranno diventare soci. Nel frattempo saranno sostituiti anche i vertici, decimati da liti e inchieste giudiziarie. Il presidente di Rfi Dario Lo Bosco è stato arrestato pochi giorni fa per corruzione. Il presidente di Trenitalia Marco Zanichelli si è dimesso, l'amministratore delegato Vincenzo Soprano è in regime di prorogatio. Benché sia passato poco più di un anno dalla loro nomina, nei prossimi giorni verranno sostituiti sia il presidente che l'amministratore delegato del gruppo, Michele Elia e Marcello Messori, divisi sulla strategia da percorrere. Le voci di palazzo raccontano che in pole position per la successione ci sono rispettivamente il numero uno della controllata di Fs Busitalia Renato Mazzoncini e l'ex direttore generale della Rai Luigi Gubitosa. Se per lo Stato c'è una merce difficile da vendere, sono treni e binari. Per fino Margaret Thatcher, che in Gran Bretagna privatizzò quasi tutto, finì per rinunciarvi, lasciando il testimone a John Major. Ferrovie dello Stato è l'unica azienda pubblica rimasta intatta dall'inizio degli anni novanta. I privati oggi gestiscono le autostrade, l'elettricità, hanno quote importanti dell'Eni, controllano l'ex monopolista dei telefoni. Le Ferrovie sono ancora pubbliche al cento per cento, come vollero i governi liberali di inizio novecento. Sedicimila chilometri di rete, mille di alta velocità, quasi settantamila dipendenti, ottomila treni, una miriade di società controllate, almeno cinque miliardi di sussidi pubblici all'anno, un fatturato che supera gli otto. Il decreto firmato ieri dal consiglio dei ministri è il primo passo formale della privatizzazione, ma un progetto compiuto ancora non c'è. Le domande inevase Per ora il governo ha posto alcuni paletti. Il primo: l'infrastruttura dovrà rimanere in mano pubblica, così da «permettere a tutti gli operatori di averne accesso». Ma cosa significa lasciare l'infrastruttura in mano pubblica? Oggi la società che gestisce i treni (Trenitalia) e quella che controlla i binari (Rete ferroviaria italiana) sono nella stessa holding. La rete verrà compiutamente scorporata oppure no? E cosa ne sarà del trasporto regionale? Fra Tesoro, ministero delle Infrastrutture, Palazzo Chigi se ne discute da mesi. I vertici scelti da Renzi l'anno scorso ne hanno litigato furiosamente. L'amministratore delegato Michele Elia fortemente voluto dall'ex Mauro Moretti – è contrario alla separazione societaria. Dice che occorre salvare l'unità dell'azienda, e che se si vuole mettere sul mercato un pezzo delle Ferrovie, meglio farlo in blocco. Il presidente Marcello Messori – vicino al ministro Piercarlo Padoan – pensa l'opposto: se Trenitalia non viene prima scorporata e risanata ne uscirebbe una privatizzazione monca. Non più tardi di ieri Messori ha ribadito pubblicamente la sua posizione: «La rete deve rimanere interamente pubblica per poter svolgere quel ruolo di gestione stretta delle infrastrutture che consenta piena concorrenza sul mercato». Treni e binari Chi viaggia spesso avrà notato quanta fatica sia costata all'unico vero concorrente di Trenitalia, Italo, ottenere l'accesso a Roma Termini e Milano Centrale. Finché Mauro Moretti è stato alla guida delle Fs, i treni bordeaux di Della Valle e Montezemolo hanno dovuto accontentarsi delle soste a Rogoredo, Porta Garibaldi e Tiburtina, con conseguenze nefaste sui conti dell'azienda. Se il monopolista di un servizio (il trasporto viaggiatori) è in mano allo stesso soggetto che controlla i binari, fare concorrenza è più difficile. Eppure sul punto Delrio resta vago: «Valuteremo l'indipendenza completa del gestore della rete ferroviaria», in ogni caso «non è ancora stato deciso se sul mercato andrà solo Trenitalia o Trenitalia più una quota di Rete ferroviaria scorporata». Delrio è convinto della necessità di scorporare, il Tesoro preferisce la vendita in blocco. L'ipotesi che circola in queste ore è un compromesso, ovvero mettere sul mercato il 40 per cento dell'azienda, immobili compresi ed esclusa Rfi, che rimarrebbe un'entità separata, anche se solo formalmente. Se ne intuisce il perché: in questo modo la società può essere venduta ad un prezzo più alto, perché più grossa e sussidiata. La Trenitalia privatizzata sarebbe comunque cosa diversa dalla rete, il cui patrimonio vale almeno trenta miliardi di euro, i tre quarti dell'intera azienda: più è basso il patrimonio, più è alta la remunerazione del capitale. La priorità del governo oggi è un'altra: avere più fondi possibili per migliorare la qualità del trasporto pendolari. «Vogliamo aumentare gli obblighi di servizio pubblico» , d i ce Delrio. «C'è troppa distanza fra chi viaggia sui treni ad alta velocità e chi usa i treni locali». Oggi quei treni sono gestiti dalle Regioni, che firmano convenzioni con le Ferrovie per la gestione del servizio. Il tentativo di affidarlo a privati non ha avuto molto successo perché, a parte alcune tratte, è un business in spesso in perdita. È anche per questo che il governo non crede fino in fondo ad una separazione immediata fra rete e servizio. Un ragionamento non troppo diverso da quello che ha prevalso per la divisione tra Eni e Snam.